I presupposti della concorrenza sleale
La disciplina della concorrenza, almeno nell’epoca moderna, nasce con il liberismo economico, secondo il quale la libertà di accesso al mercato e la concorrenza costituiscono i due elementi fondamentali per ottenere prezzi giusti, migliore qualità dei prodotti o servizi e quindi, almeno nella teoria, il benessere economico.
Il fine principale e più realistico era sempre – ed è tuttora – da una parte premiare soggetti più virtuosi; dall’altra, garantire ai consumatori la possibilità di scegliere con cognizione e sicurezza tra i migliori prodotti o servizi presenti sul mercato.
La normativa di riferimento
Senza addentrarsi troppo nel coacervo di norme e pronunce giurisprudenziali che hanno contribuito a disciplinare la materia della concorrenza nel nostro ordinamento, è importante sapere che le più frequenti fattispecie in tema di concorrenza sleale tra le imprese sono state individuate dalla giurisprudenza nell’articolo 2598 del Codice civile, che trova a sua volta la “fonte d’ispirazione” nell’art. 10 bis della Convenzione dell’Aja del 6/11/1925.
In questa sede non ci soffermeremo sul rapporto tra queste due norme – entrambe in vigore, nonostante molti giuristi ritengano vi sia antinomia tra le due – o sulle più importanti fattispecie previste dall’art. 2598 c.c. – oggetto del prossimo articolo – bensì sui presupposti che determinano la concorrenza sleale tra due o più soggetti del mercato.
I profili merceologico e territoriale del rapporto di concorrenza
Affinché sussista una concorrenza sleale, è necessario che i due soggetti siano – effettivamente – in concorrenza tra loro, cioè che offrano sullo stesso mercato beni o servizi idonei a soddisfare bisogni identici o simili.
Tale fattispecie è facilmente individuabile quando due imprese offrano beni/servizi identici e operino sullo stesso territorio.
Più complicato, invece, è accertare il rapporto di concorrenza quando vengano offerti prodotti diversi e due imprese (o imprenditori) non operino nello stesso territorio: si pensi al caso estremo di due imprese, una in Italia e l’altra in Nuova Zelanda, che producano una bibite gassate e l’altra succhi di frutta.
In questi casi, secondo la dottrina maggioritaria, appartenendo entrambi i prodotti alla stessa categoria merceologica (bibite), sussisterebbe un rapporto di concorrenza qualora esso sia, in concreto (cioè desumibile da regole di esperienza), meramente potenziale, quindi considerato probabile in un determinato futuro.
Pertanto, riprendendo l’esempio delle due imprese dislocate una in Italia e l’altra Nuova Zelanda, se entrambe sono di piccole dimensioni, con clientela dislocata nella propria regione, non potrà sussistere un rapporto di concorrenza, anche se una delle due cominciasse a fornire gli stessi prodotti dell’altra. Viceversa, qualora una delle due sia nota a livello internazionale, verrà a crearsi un rapporto di concorrenza potenziale con l’altra.
Le imprese operanti e livelli diversi
Le fattispecie più controverse, però, sono quelle che vedono due imprese trattare prodotti simili, ma a livelli economici diversi (ad esempio, un produttore e un distributore: il primo si rivolge ai grossisti, il secondo ai consumatori).
In questo caso, la giurisprudenza recente ritiene sussistente un rapporto di concorrenza, in quanto l’attività (sleale) di un’impresa potrebbe sviare la clientela che si sarebbe rivolta verso i prodotti dell’altra. Si pensi ad un commerciante che agisca nell’interesse di un altro produttore, rispetto a quello che subisce l’atto sleale.
Gli atti (sleali) dei terzi
Infine, è importante comprendere se gli atti posti in essere da soggetti collegati all’impresa o all’imprenditore da un rapporto di lavoro, di collaborazione o altro, siano direttamente riconducibili ad essi e, quindi, configurino una responsabilità presunta per concorrenza sleale.
Se, da una parte, è indubbia la riconducibilità all’imprenditore degli atti posti in essere dai suoi dipendenti nell’esercizio delle proprie mansioni, lo stesso non può affermarsi in merito a quelli dei suoi ausiliari o collaboratori autonomi.
La giurisprudenza dominante ritiene che, in questi casi, affinché si configuri una responsabilità in capo all’impresa, è necessario che l’atto (sleale) sia stato posto in essere da chiunque si trovi in una relazione con essa tale, da qualificare la condotta come volta a procurarle un vantaggio, ai danni di un altro imprenditore.